Il futuro dell’auto coincide con il futuro di tutti noi.

Durante la discussione in Consiglio Regionale sul futuro dell’automobile e della FCA ho voluto affrontare tre temi: ricerca, lavoro e etica.

Sulla ricerca ho detto che la sfida che anche le case automobilistiche devono affrontare per rendere compatibile il nostro pianeta con le attività dell’uomo è quella della ricerca di fonti alternative e rinnovabili per alimentare i motori. Ma l’innovazione tecnologica e la ricerca devono essere sostenute con risorse pubbliche e private anche per aumentare la sicurezza sulle strade piuttosto che nell’individuazione di materiali rispettosi della natura quando, dopo l’utilizzo, le auto diventano rifiuti. Nella ricerca non è un fattore marginale in Italia la bellezza. La bellezza per noi è un profilo di riconoscimento ed è da sempre un tratto che ci contraddistingue nel mondo in grado di rendere competitivo qualsiasi prodotto del Made in Italy.

Sul lavoro, proprio nel tempo del rinnovo del contratto, ho detto che l’unico modo per strappare la gente alla povertà è creare nuovi posti di lavoro. Ho abbinato gli aggettivi stabile, qualificato, sicuro, alla parola lavoro e li ho inseriti nella richiesta del Piano industriale di FCA che è poco o nulla se non è sostenuto da un nuovo Piano Industriale per l’Italia in una nuova Europa. Una nuova Europa capace di proteggere il nostro sistema produttivo e di renderlo competitivo.

Sull’etica ho detto che noi politici siamo costretti, fortunatamente, ad essere giudicati per l’etica. Io non giudico, ma l’etica, il carattere, il comportamento, il costume, la consuetudine, sono elementi oggettivi e razionali che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status, cioè di distinguerli in buoni, giusti, o in cattivi, inappropriati. Nel pensiero filosofico dell’inizio del 900, in corrispondenza con i primi impulsi industriali, fu per la prima volta discussa la “responsabilità verso altri” dell’impresa, cioè il principio di responsabilità di ogni gesto, di ogni scelta nei confronti del prossimo; e il prossimo riguarda ogni attività degli esseri viventi, quindi anche del genere umano. Si scriveva in quei tempi “agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana”.

Scelte e direzioni che non riguardano solo il destino dell’impresa, nemmeno solo il destino della forza lavoro di quell’impresa. Scelte e decisioni che riguardano una comunità più ampia, molto più ampia.

I tempi nuovi hanno unificato i mercati mondiali, hanno accelerato la diffusione di innovazioni tecnologiche che hanno portato a modelli di consumo e di produzione convergenti. I tempi nuovi hanno generato una sfida globale per determinare utili di impresa lungo le linee mai abbastanza soddisfatte degli azionisti, lungo il fiume a volte insidioso di una finanza troppo competitiva.

Mi sono chiesto, e ho chiesto, se era esattamente questa la giustizia sociale che ci aspettavamo dai tempi nuovi, se questi importanti cambiamenti potevano incidere diversamente sulle disuguaglianze. Mi sono chiesto, e ho chiesto, quanta etica c’è stata tra la logica del profitto e quella delle tutele dei diritti sociali. In quello scarto quanto avremmo potuto fare? Qui sta la sfida che politica, impresa, sindacati, devono cogliere insieme. A noi le parole non fanno paura, fa paura l’uso delle stesse. “Delocalizzare” non è una brutta parola di per sé, lo diventa quando la si usa per andare dove viene applicata meno fiscalità, risorsa fondamentale per finanziare il welfare, o dove è possibile una massimizzazione dei profitti con il taglio dei costi di produzione sfruttando il mancato riconoscimento dei diritti minimi dei lavoratori.