OPERAI.


Li ho visti in faccia ieri mattina in piazza Castello a Torino, erano in tanti a manifestare le loro preoccupazioni. In verità non era preoccupazione, nemmeno paura, era rabbia mista a speranza. Da mesi molti sono cassaintegrati, altri in naspi, altri ancora sul baratro del licenziamento, ma ciò che è peggio è che non sono più operai. E essere operaio è tuttora una collocazione precisa nel mondo, una definizione che identifica, che restituisce dignità. E la rabbia che circolava in quella piazza stava tutta lì, nell’aver perso una identità e di averla persa in solitudine mentre il padrone, spesso senza volto, se ne andava altrove a fare guadagni. Perchè i guadagni, a differenza degli operai, sono sempre gli stessi. La speranza, dicevo. In quei volti c’è ancora la speranza che qualcosa può cambiare e presto perchè le bollette arrivano, la rata del mutuo anche, i figli a scuola costano. C’è la speranza che qualcuno finalmente può aver capito che i lavoratori esistono e vanno protetti sempre, non solo nella fase finale delle infinite crisi industriali dove le soluzioni sono dedicate a pochi di loro, ad altri le mance, ad altri ancora nulla. Erano anche operai metalmeccanici dell’indotto ex Fiat, quelli che adesso con la 500 elettrica non lavoreranno più (e già siamo in ritardo nel dir loro la verità) . Io li ho visti negli occhi ieri, mi ricordavano mio padre che è un operaio del secolo scorso senza rabbia e con tante speranze. Se non torniamo a rappresentarli, gli operai, se non torniamo ad organizzare la loro rabbia e la loro speranza, se nel nuovo conflitto sociale che c’è, e nessuno lo neghi, tra lavoro e grandi capitali, noi non ci schieriamo a fianco dei lavoratori, noi, intendo noi che ambiamo ad essere una rappresentanza politica della sinistra popolare, saremo inutili.